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Tour degli Stati Uniti dell’Ovest: viaggio di 25 giorni fra Phoenix e Los Angeles

Settembre 5, 2023 /

Pubblichiamo il diario di viaggio di Ivan, una vera e propria “odissea” di 25 giorni nell’Ovest degli Stati Uniti, che ha permesso di toccare buona parte delle principali mete del Southwest Americano, anche se a ritmi forsennati e non certo alla portata di tutti. Chi volesse esplorare la West Coast con meno giorni a disposizione e a ritmi un po’ più rilassati può prendere a modello di riferimento i nostri 2 itinerari: Tour West Coast 15 giorni e Tour West Coast in 20 giorni. Per chi invece preferisce un tour organizzato segnaliamo la lista dei pacchetti viaggio disponibili sulla nostra pagina dedicata. 

Giorno 1: Arrivo a Phoenix con scalo a New York

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Primo agosto 2018. La partenza è impegnativa. Alle 5 io e la mia compagna Vittoria siamo già in aeroporto, scalo a Roma, controllo passaporti e volo per JFK. Nuovi controlli e dopo aver ritirato le valigie alla dogana statunitense, compriamo una SIM americana ricaricabile che ci terrà compagnia per il mese e ci dirigiamo al terminal (dedicato) della DELTA.

Facciamo un nuovo check in per i bagagli e aspettiamo il volo per Phoenix. Nel mentre decidiamo pure di cambiare hotel per la prima notte, dato che le condizioni di prenotazione ce lo permettono, e optiamo per il Grand Canyon University Hotel, leggermente fuori il centro, ma molto vicino all’agenzia dove il giorno dopo prenderemo l’auto a noleggio che abbiamo prenotato.

Perdiamo quasi un’ora in attesa di decollare per traffico aereo congestionato sulla pista. Dal mio finestrino riesco a vedere la silhouette dello skyline di Manhattan e penso a quanto, nonostante la mia eccitazione per il viaggio che mi attende a oltre 4000 km di distanza, l’attrazione che ho sempre provato per New York non è scemata affatto. Se l’eccitazione di essere nuovamente a New York (per la terza volta e anche solo di passaggio in questo caso) mi ha permesso di restare con gli occhi aperti fino alla terza delle cinque ore di volo previste per la capitale dell’Arizona, i colori del tramonto (allungato temporalmente rispetto ai due precedenti fusi che abbiamo toccato) mi lasciano immaginare che quel rosso-arancione sarà qualcosa di ancora più straordinario una volta toccato terra.

Prima di atterrare mi rendo conto di quanto Phoenix sia grande, forse a rendere le dimensioni è la sua posizione, circondata dal deserto e quindi praticamente buio pesto oltre i suoi confini. Atterrati, praticamente nessun controllo ma la “sorpresa” è nel vedere che il catenaccio del nostro bagaglio da stiva condiviso è stato spezzato. All’interno del bagaglio troviamo una notifica da parte della dogana statunitense.

Il clima è quello che mi aspettavo, dopo tutto siamo nel sud dell’Arizona in piena estate. Alle 9 di sera ci sono circa 40 gradi Celsius. Il caldo torrido però passa in secondo piano non appena siamo in taxi e mi informo sugli abitanti di Phoenix (5 milioni!) e intravedo i famosi cactus Saguaro (o cactus a candelabro), tipici del deserto di Sonora che parte nel sud dell’Arizona e si estende in Messico oltre il confine. Arrivati in hotel, dopo praticamente un intero giorno di viaggio, troviamo la forza di andare a fare un bagno in piscina e nella piccola Spa adiacente. Prima di chiudere gli occhi prenoto il taxi per il giorno dopo. Camminare con oltre 40 gradi per 3 km di primo mattino non è consigliabile. Poi c’è solo buio.

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Giorno 2: da Phoenix a Monument Valley

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Ore di viaggio: 6

Il buio dura relativamente poco. Alle 4.30 mi sveglio e non riprendo più sonno. Ammazzo il tempo valutando possibili itinerari per la giornata. Dopo una abbondante colazione alla mensa universitaria si parte! Il taxi ci porta in meno di 10 minuti alla stazione di noleggio Hertz di East Camelback Road, dove siamo costretti ad aspettare una quarantina di minuti prima che la nostra convertible sia pronta. Convertible che si rivela essere una Mustang grigio metallizzato. Non esattamente un brutto veicolo. Ci viene regalato un buono di 30 dollari per scusarsi del ritardo, buono che però potrà essere speso solo negli Stati Uniti.

Dopo esserci resi conto che alcune deviazioni che avevamo in mente non sono fattibili per tempi di percorrenza e per la mia (ferrea) volontà di arrivare alla Monument Valley per il tramonto (7:40 circa) decidiamo di rinunciare al Meteor Crater vicino a Winslow (dopo aver letto alcune recensioni non troppo entusiaste) e il Canyon de Chelly (ahimè questo a malincuore).

Decidiamo quindi di seguire la Interstate 17 verso Nord, passando quindi per il primo dei canyon che vedremo. È l’Oak Creek, maestoso, le cui gole ci accompagnano verso Sedona, di lì saliamo di quota sul passo di montagna della foresta di Coconino. In quota, dopo aver dato un’occhiata a un’esposizione di gioielleria Navajo decidiamo di proseguire verso Flagstaff. Dopo pochi minuti siamo costretti a tirare su la cappotta della macchina per via di un improvviso acquazzone estivo. Arrivati a Flagstaff pranziamo rapidamente al Macy’s Fresh Roasted Coffee (cucina sia salutistica che classica e abbastanza valida), compriamo delle borracce termiche e ci rimettiamo in moto.

Una sosta al Sunset Crater Volcano National Monument, dove acquistiamo la tessera parchi America the Beautiful al costo di 80 dollari. Il paesaggio semi lunare ci ricorda un po’ l’Etna. Di nuovo in moto guidiamo per almeno un paio d’ore prima di fare rifornimento a Tuba City (vicino al Coal Mine Canyon), in piena Navajo Nation, dove il GPS del telefono fa continuamente i capricci per via del fuso orario dell’Arizona che cambia in continuazione. Letteralmente, da curva a curva.

Imboccata la AZ 160 a Tuba City, cominciamo a vedere rocce indefinibili, dai colori più disparati. Dal grigio delle rocce Elephant’s Feet fino al rosso che protegge antiche abitazioni Anasazi. Dove la strada devia e diventa la AZ 163 South cominciano a spuntare formazioni rocciose gigantesche dal nulla e dalle forme più controverse. Stiamo entrando nella Monument Valley, al confine tra Arizona e Utah.

Tuttavia il tramonto è invisibile, poiché l’immensa area è praticamente coperta da nuvole fin dove l’occhio può vedere. Ciò nonostante il panorama è straordinario. Dal Visitor Center sfruttiamo la luce rimasta il più possibile per ammirare i tre colossi, i butte di est, ovest e di Merrick. Dopo di ciò, cerchiamo un pasto pronto nell’unico supermarket della zona (Goulding’s Grocery Store) e, nel buio più totale, ci dirigiamo verso la tenda che abbiamo prenotato per il pernottamento. Tenda che si rivela invece essere una roulotte, dove dormiamo profondamente.

I nostri consigli su dove dormire alla Monument Valley

Giorno 3: da Monument Valley a Moab

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Ore di viaggio: 3:30

Come da copione, mi sveglio alla buon’ora, Vittoria poco dopo. Mentre lei si sta facendo la doccia io ammiro l’alba alle spalle dei butte in lontananza. È ancora nuvoloso, ma all’orizzonte il giallo del sole si fa notare maggiormente. Ci dirigiamo al visitor center, dove abbiamo la nostra guida ad attenderci. Il nostro tour di due ore e mezza ci mostra la valley come non avremmo potuto se avessimo deciso di vederla col nostro veicolo.

Il John Ford’s Point merita una menzione particolare, punto panoramico di grande bellezza che prende il suo nome poiché location in numerose pellicole del famoso regista. Altra menzione per lo hogan (abitazione o capanna Navajo), dove vediamo come i Navajo creino dal nulla o quasi la loro gioielleria. Verso la fine dell’escursione la nostra guida, sempre Navajo (sono loro a gestire tutta la Valley) ci intona una canzone popolare per augurarci un futuro radioso spinti dalla forza del cielo e della terra.

Dopo aver scattato le ultime foto alla Valley dal visitor center, ci mettiamo in cammino verso Moab. Non prima di fermarci al Forrest Gump Point, sulla spettacolare US 163 North, dove le foto sono d’obbligo. Successivamente entriamo al Gooseneck State Park (collo d’anatra), dove il corso del fiume San Juan ha formato questo tratto di gole. Dopo quasi tre ore di auto giungiamo a Moab, circondati da montagne di roccia rossa ovunque, una cittadina graziosa di dimensioni contenute, vero hub per la zona.

I nostri consigli su dove dormire a Moab

Dopo aver pranzato con ottime quesadillas messicane da Quesadilla Mobilla (furgoncino sul marciapiede che cucina in maniera autentica e deliziosa) ci dirigiamo all’Arches National Park, a 10 km scarsi dalla città. Gli archi da qui prende nome il parco sono di una bellezza indescrivibile. Basta salire leggermente di quota per entrare in un nuovo mondo.

Da non perdere Park Avenue, Balanced Rock, Landscape Arch, Double Arch e Delicate Arch (vero arco identificativo del parco, tanto da figurare pure sulle targhe dello stato dello Utah), ma sono talmente tanti da non poter mai essere visti tutti. Al calar della sera torniamo in città per mangiare (The Atomic Grill & Lounge, porzioni abbondanti e piuttosto saporite) e dormire al River Canyon Lodge (discreta la piscina).

Giorno 4: da Moab a Panguitch passando per Canyonlands e Capitol Reef

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Ore di viaggio: 8

La sveglia questa volta è umana: il fuso ormai è quasi assorbito e dopo una colazione a base di pancakes al Pancake Haus di Moab, ci lanciamo nella nostra Mustang direzione Canyonlands National Park. Dopo una prima sosta al Visitor Center della sezione Island in the Sky (il parco ha due sezioni, l’altra, più remota è The Needles) cominciamo la nostra esplorazione di vari lookout (punti di osservazione).

Il primo è lo Shafer Canyon, poi tappa obbligata per il sentiero che porta a Mesa Arch, un arco famosissimo un po’ ovunque tra i fotografi, specie per le sue foto all’alba. L’arco è più piccolo di quanto si creda, ma lo scorcio che si ha attraverso esso è davvero mozzafiato. Le fratture che il parco ha nelle vallate sottostanti sono ben visibili, oltre al fatto che l’arco si trova praticamente su uno strapiombo di almeno un centinaio di metri. Davvero suggestivo e accattivante alla vista.

Successivamente, accompagnati ovunque dai corvi (ospiti fissi nell’altopiano del Colorado), raggiungiamo Grandview Point, dove un sentiero a piedi ci porta ad osservarne una vista quasi frontale. Essendo pieno giorno, il caldo si fa sentire, come da copione, portate sempre tanta acqua con voi, anche perché qui l’unico posto dove riempire la borraccia è il Visitor Center.

Soddisfatti delle vedute del parco, e consci di avere una lunga pomeriggio di guida davanti, decidiamo di tornare indietro e andare a vedere Dead Horse Point State Park, deviazione sulla strada del ritorno. Il parco è famoso sì per gli scorci drammatici, ma ha anche acquisito notevole notorietà perché in una sporgenza al suo interno è stata filmata la sequenza finale del film Thelma & Louise. Ingresso del parco 10 dollari.

L’itinerario prefissato ci riporta a Moab, dove svoltiamo verso nord fino a imboccare la Interstate 70 Ovest, dove prima di uscire per la UT-24 subiamo un po’ di intemperie estive refrigeranti. Imboccata la UT-24 il paesaggio diventa incredibilmente vario: prima lunare, poi roccioso, poi pianeggiante con sporadiche rocce che spuntano ai bordi della strada. Tutto questo con montagne sempre all’orizzonte.

Arriviamo così fino al Capitolo Reef National Park, dove prima di fermarci a Fruita a cogliere (gratuitamente) delle buonissime mele dagli alberi, vediamo attraversare un cervo con il suo piccolo. Entrati a Capitol Reef decidiamo di seguire la scenic route che porta all’interno del parco. Le formazioni rocciose sono di un rosso fuoco rispetto al più tendente arancione visto finora, inoltre al ritorno la fauna ci compagnia. I cervi sono chiaramente abituati alla presenza dell’uomo e si fanno avvicinare fino a pochissimi metri senza preoccuparsi più di tanto della nostra presenza, e sono in gran numero.

Di nuovo in macchina, arriviamo a un passo di montagna all’interno della foresta di Dixie. Come dicevo, la straordinarietà di quanto visto prima ha fatto da anticipazione all’ennesimo cambio di scenario. La temperatura cala fino a 14 gradi celsius, sempre meno gente per strada e le Henry Mountains che prendono forma in lontananza con maggiore nitidezza. Scesi dal passo, ci fermiamo a cenare a Boulder al Burr Trail Grill (discreto). È praticamente buio pesto, e come da previsione faremo tardi.

Ci sono circa due ore di strada ancora per Panguitch, cittadina a mezzora dal Bryce Canyon, dove dobbiamo passare la notte. La UT 12 è una strada che non riusciamo ad ammirare per mancanza di luce, ma compensiamo con vari roditori, un coyote, e un cervo che ci passano davanti mentre guidiamo. La strada è impegnativa e la stanchezza è notevole, se non siete sicuri della vostra lucidità, non percorretela di notte.

In prossimità di Panguitch, nonostante sia tardi, Vittoria mi dice che sarebbe il caso di accostare e uscire dall’auto. Eseguo e guardo in alto. Quello che vedo è un cielo come non ho mai visto in vita mia. Non sono un astrologo e so poco o nulla di costellazioni, ma sono convinto che uno più ferrato ne avrebbe potute contare diverse. Una meraviglia unica. Finalmente a Panguitch e per direttissima a letto.

Alloggi a Panguitch

Giorno 5: da Bryce Canyon a Lake Powell e Page

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Ore di viaggio: 4:30

Facciamo colazione al Rise & Shine Bakery and Inn di Panguitch, un cafe allesito all’interno di una casetta con staccionata bianca. Di Panguitch non abbiamo visto molto, non c’è granché da vedere. Tuttavia, è una cittadina che nonostante il costante aumento di turisti per la vicinanza al Bryce Canyon, conserva ancora il suo aspetto da western, con la lunga via principale e gli edifici di forme e colori che ricordano i vari saloon ed esercizi commerciali dei secoli passati.

Terminata la colazione, ci mettiamo in macchina per il Bryce Canyon, dove per strada vediamo il Red Canyon e passiamo sotto i due Red Rock Arches. Arrivati al parco, che è affollato come ci si aspetta in piena estate, ci concentriamo sui vari punti panoramici di diverse sezioni. Sunrise point, Sunset point più in basso, fino a Grandview point più in alto. L’altitudine del canyon regala una temperatura di 17 gradi circa, ben al di sotto delle medie percepite fino a quel momento.

Bryce Point, sulla via del ritorno, è forse il punto più panoramico al di sopra del Bryce Amphitheater. Gli innumerevoli hoodoos, pinnacoli di roccia rossa che occupano verticalmente il canyon sono davvero incredibili. Altri punti notevoli sono Natural Bridge, l’ennesimo arco del sud-est dello Utah e Fairyland Point, vicino all’ingresso (e uscita) del parco. Non avendo tantissimo tempo a disposizione non siamo scesi giù per un sentiero tra gli hoodoos. Fauna presentissima, con scoiattoli e cervi facilmente visibili, oltre agli immancabili corvi.

Memori dell’avvertimento di una famiglia italiana incontrata a colazione, decidiamo di saltare lo Zion National Park, un po’ per il clima infernale che ci viene prospettato, un po’ perché dopo tanto caldo ci viene voglia di acqua. E nel nostro itinerario dopo Zion è previsto il Lago Powell, nuovamente al confine tra Arizona e Utah. Per giungervi guidiamo per quasi 3 ore, in una statale (la UT89) che a tratti sembra un cimitero di cervi. Ne abbiamo contati diversi ai lati della carreggiata, quasi certamente tutti investiti.

Dalle alture di Bryce al torrido deserto decisamente a diversa altitudine di Lake Powell lo sbalzo termico è impressionante. Tanto che a 50 km dal lago siamo costretti a ritirare la cappotta della macchina per il caldo che è ormai insopportabile. Arrivati a Wahweap, dove è presente una marina e una spiaggia di sabbia ci sono 40 gradi. L’acqua non è il massimo, è molto torbida per via della sabbia che si alza costantemente non appena la si sfiora. Vittoria, che non è abituata ai laghi non apprezza più di tanto, ed effettivamente neanche al sottoscritto l’acqua fa impazzire in quello scorcio di lago.

Da lontano, l’immagine del lago è totalmente diversa. Fatto sta che il lago rimane un paradiso per gli sport acquatici come waterski, jetski, paddling. La bellezza geologica del lago però è qualcosa che si ammira solo a bordo di un battello o di una imbarcazione privata inoltrandosi al suo interno, tra le sue gole e strettoie. Ricordiamo che il lago è stato creato artificialmente deviando il fiume Colorado grazie alla diga costruita nella vicinissima Page.

Antelope Island, Navajo Mountain e lo Escalante National Monument sono solo alcune delle maestose formazioni rocciose che si ammirano dal battello. I colori della roccia sono bianco dove sono toccate dall’acqua, arancioni o rosse per le qualità minerali dove l’acqua non arriva. Differenti colorazioni in prossimità del livello dell’acqua restituiscono inoltre l’idea di come il lago si svuoti e si riempia regolarmente.

Terminato il giro corriamo fino allo Horseshoe Bend, dove mi aspetto di arrivare e ammirare la formazione rocciosa. Niente di più sbagliato, perché la distanza non è indifferente dal parcheggio, tanto che praticamente non arrivo a fare le foto che voglio perché la luce è quasi andata. Mi riprometto di tornare il giorno seguente dopo la visita all’Anteope Canyon. Torniamo a Page esausti e ci mettiamo a letto dopo aver diviso (e non terminato) una pizza.

I nostri consigli su dove dormire a Page

Giorno 6: da Page al Grand Canyon fino a Kingman

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Ore di viaggio: 6

Sveglia alla buon’ora, rapida colazione e via verso Antelope Canyon, dove con mesi di anticipo avevo prenotato la visita guidata alla lower section. Prenotate in anticipo, e se potete con Ken’s Tours, dato che è l’unico tour operator che ha sede in loco e vi evita il trasferimento a bordo di pulmini o altro. Il Canyon è notevole, come te lo aspetti dalle foto, che per quanto elaborate non rendono giustizia. Tra l’altro credo che la prima mattinata sia anche l’ora ideale per i giochi di luce che si creano tra gli spazi.

Il caldo è cocente, siamo sempre intorno ai 40 gradi e ci dirigiamo nuovamente allo Horseshoe Bend, dove finalmente vediamo questa maestosa roccia cui il Colorado ha deciso di girare intorno formando una “U”. Un vero spettacolo della natura. E siamo nuovamente in auto, sono circa le 11 del mattina, il sole picchia e abbiamo due ore di macchina verso il South Rim del Grand Canyon, che nonostante sia la sezione più turistica e visitata è anche quella forse più bella e sicuramente più accessibile del versante Nord.

Dopo mezzora scarsa lungo la 89A verso Sud, da una sporgenza decido di accostarmi. Mi sono appena reso conto che la spaccatura improvvisa che vedo in lontananza è niente di meno che “l’inizio” del Grand Canyon. Sosta per fare scorta di acqua e terminare la pizza della sera precedente (ancora buona!) e finalmente entriamo al parco.

Non saprei spiegare il perché, ma tra tutti i parchi finora visti questo è quello che mi colpisce di meno. Forse perché sapevo che il Grand Canyon fosse maestoso e quindi mi aspettavo la grandezza che vedo coi miei occhi, non credo sia invece un problema di turisti. I vari punti panoramici dall’entrata a Est del parco sono sempre diversi. Il South Rim copre circa 45 km del canyon, quindi a ogni kilometro lo scenario cambia tanto o poco a seconda della geologia del canyon. Fino al visitor center, consiglio Mohave e Grandview Point, davvero fantastici, ma praticamente ogni punto dove ci si può fermare merita almeno cinque minuti di attenzioni.

La temperatura è sopportabile, 33 gradi circa e l’altura aiuta. Arrivati al Visitor Center, se si vuole arrivare fino in fondo alla sezione verso Ovest è necessario usare gli shuttle bus che il parco fornisce. Sono efficientissimi e potete decidere voi dove e quando scendere e/o riprenderli. Man mano che ci avviciniamo all’estremità del rim verso Hermit’s rest, il sole comincia lentamente a calare alla nostra sinistra, i turisti sono sempre meno, i fotografi e i documentaristi la fanno da padrone, sempre in rigoroso silenzio. Man mano che ci avviciniamo verso Pima Point, il penultimo stop della sezione, l’esperienza si fa sempre più intima con maggiore silenzio.

I nostri consigli su dove dormire al Grand Canyon

Possiamo ammirare aquile di mare testa bianca, simbolo americano, oltre gli immancabili corvi. Gli scoiattoli ci accompagnano speranzosi di qualcosa da sgranocchiare. A Pima Point, aspettiamo il tramonto, che regala alle rocce colori ancora più vividi. L’unica pecca della giornata a mio avviso è stata l’assenza di nuvole, che a mio avviso avrebbero donato drammaticità allo scenario rispetto al cielo pulito e azzurro (a parte una nube nel North Rim, presumibilmente un incendio). Dopo aver notato un fotografo di National Geographic sullo shuttle con noi penso che la nostra giornata sia completa e soddisfacente. Ma le ultime sorprese sono una famiglia di francesi, che stranamente trovo simpatici, e una elegante femmina di wapiti e il suo piccolo, che vedo per la prima volta dal vivo.

Tornando alla macchina notiamo un tramonto ormai quasi ultimato e una striscia rosso fuoco alle nostre spalle. Non trovando nulla da mangiare che non richieda un’attesa esagerata al Grand Canyon Village, decidiamo di metterci in macchina, dato che la nostra camera da letto per la notte dista oltre due ore e mezzo di macchina, a Kingman in Arizona, ma al confine col Nevada. Ci dirigiamo a Williams, cittadina che ci viene di passaggio e che è parte della Route 66. Affamati come non sapremmo spiegare ci fermiamo all’unico posto ancora aperto alle 21:25, il Fiesta Mexican Grill, dove ci portano un burrito di dimensioni mitologiche e un misto di antipasti che sfamerebbe un wrestler.

Alloggi disponibili a Williams

Di nuovo in moto, dove brucio i tempi di percorrenza arrivando a Kingman in poco più di un’ora e mezzo. Il nostro motel (El trovatore) è gestito da un signore israeliano e sua moglie, due tipi molto particolari che però non potrete fare a meno di apprezzare. La particolarità del motel è che le sue stanze sono dedicate a vari personaggi famosi della cultura americana (Michael Jackson, John Wayne, Elvis). Per la gioia di Vittoria, la nostra stanza si rivela essere quella di Marylin Monroe. Motel carinissimo.

Alloggi disponibili a Kingman

Giorno 7: da Kingman a Las Vegas

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Ore di viaggio: 2

A Kingman siamo finalmente in grado di trovare una lavanderia a gettoni, dove prima di andare a fare colazione lasciamo i vestiti sporchi. La colazione è in uno dei posti consigliati dal proprietario del motel la sera precedente. Mr D’z Route 66 Diner è una dichiarazione d’amore ai vecchi diners di anni 50 e 60. Sgabelli roteanti, colori come azzurro e rosa a farlo da padrone, bicchieroni a cono dove montare gelato e panna come in tanti film, oltre a un’infinità di memorabilia sulla Route 66. Se volete tornare nel passato e mangiare come avete sempre visto fare al cinema, questo è il posto per voi.

L’Arizona confina a ovest col Nevada, che è dove tutti sono diretti se a Kingman. Precisamente a Las Vegas, il parco giochi d’America. Sulla suggestiva strada desertica del sud del Nevada (se non lo sapeste, il Nevada ha anche splendide montagne a Nord con tanto di neve, contrariamente all’immaginario collettivo) ci fermiamo a vedere la Diga di Hoover, costruita sul bacino idrico del lago Mead.

Controlli militari come da copione e via giù per la diga, che è diventata ormai una vera attrazione turistica. Successivamente decidiamo di sfidare la sorte e ci fermiamo a Hemenway Park, a Boulder City, sperando di vedere da vicino i Big Horn del deserto, che sono soliti brucare i prati del parco quando scendono dalle colline rocciose intorno. Niente da fare.

Ci dirigiamo verso la città del peccato, dove facciamo l’immancabile foto con la scritta alle spalle “Welcome to Las Vegas” e ci dirigiamo al nostro alloggio. Il “modesto” Caesars Palace. Ci sono circa 44 gradi, tanto che la prima cosa che ci viene in mente è andare nell’area piscina, circondati da colonnati sfarzosi e pacchiani. Ma questa è Vegas dopotutto.

Nel pomeriggio giriamo per la “strip” decidendo di entrare a vedere il numero maggiore possibile di casinò e hotel a tema di Las Vegas. Bellagio, The Mirage, Wynn&Encore, Venetian. Ci mancano solo gli asiatici Mandalay e Mandarin oltre MGM e praticamente il giro è completo. L’enormità dei casinò e degli hotel lascia intendere come questi posti siano costruiti per far perdere la gente al suo interno. Per far perdere la cognizione del tempo invece, bastano i tavoli da gioco e le slot machines.

Guida ai migliori hotel di lusso di Las Vegas

Immancabile vedere i giochi d’acqua delle fontane del Bellagio. Chiudiamo la serata cenando al Virgil’s Real BBQ, autentica smokehouse (estremamente raccomandata e servizio velocissimo) con sapori del sud statunitense, e vedendo LOVE, spettacolo del Cirque du Soleil con le musiche dei Beatles. Prima di andare a dormire invece, mi tolgo lo sfizio di giocare (e perdere) a una roulette all’interno dello storico Flamingo, di fronte al Caesar’s Palace.

Giorno 8: da Las Vegas alla Death Valley fino a Bridgeport

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Ore di viaggio: 8

Lasciamo il Caesars Palace attentissimi a non toccare nulla dai minibar per il terrore di addebiti ingiustificati (I sensori sono fatti per fregarti) e recuperiamo la macchina dal Valet Parking, la colazione la facciamo in una patisserie all’interno del Caesars Palace. Ci sono un paio di gradi in meno del giorno precedente, il sole spacca letteralmente le rocce del deserto e rinunciamo alla visita al Red Rock Canyon per metterci in condizione di arrivare entro la mattina al Death Valley National Park, sì, la valle della morte.

Ci vogliono circa due ore e 20 minuti, con una sosta a Parhump, una cittadina abbastanza brutta, tanto che in un commento era stata definita “la città più brutta mai vista” dall’autore. Però è estremamente consigliato se non si vuole restare senza benzina (e credetemi che in estate nessuno può permetterselo nella Death Valley) e soprattutto se non si vuole spendere una fortuna per essa. Ci avviciniamo al parco passata la Death Valley Junction, e lo scenario che ci circonda diventa sempre più desolante: erbacce, rocce sparse e sabbia finché occhio vede, le uniche forme sono quelle delle montagne avanti a noi.

Entrando da Ovest, ci accorgiamo che nessuno è di guardia, i rangers sono tutti assenti. La temperatura per ora è di 43 gradi circa. La prima tappa è il passo di montagna che conduce al più famoso viewpoint: Dante’s View. Un nome che lascia intendere il riferimento all’inferno. Per prima cosa, i turisti sono pochi, anche se rumorosi in un posto che sa tanto di desolazione. Poi la temperatura è più sopportabile poiché si è in altura, infine la vista è incredibile. Sotto di noi giace il Badwater Basin, una distesa di sale immensa circondata da montagne. È il punto più basso degli Stati Uniti continentali, a 86 metri sotto il livello del mare.

Il cielo ha un colore azzurro più offuscato del solito, come se con un programma di photo editing la tinta fosse stata spostata verso un blu più acceso. I colori delle montagne su cui siamo sopra ricordano un paesaggio vulcanico, anche se di crateri veri e propri nelle vicinanze non ne vediamo (più all’interno del parco ci sono invece). Soddisfatti delle foto scattate, torniamo dalla stessa strada dalla quale siamo venuti per dirigerci a Zabriskie Point. Un punto panoramico non troppo alto che si affaccia su alcune delle innumerevoli badlands del parco. Una di queste colline dal colore dorato ha una punta curvata che risalta rispetto alle altre, sembrando quasi un corno di un diavolo. Suggestivo oltremodo.

Vedendo queste forme riconosco le location di alcune delle riprese del primo Star Wars. Zabriskie Point è anche il titolo di un film di Michelangelo Antonioni, girato anch’esso nel parco. Proseguendo per la strada interna del parco si passa per Furnace Creek, l’unico vero centro abitato all’interno dello sconfinato parco. Invece di fermarci a comprare qualcosa da mangiare, decidiamo di dirigerci verso il Badwater Basin. Di passaggio una deviazione su strada sterrata conduce a quello che viene chiamato Devil’s Golf Course: una immensa distesa di rocce appuntite che ricordano quelle vulcaniche, dove può essere osservato il sale ossidato sulle loro superfici.

Dopo una buona mezzora di strada, finalmente arriviamo al bacino di Badwater. I gradi segnalati dalla macchina sono più di 50. Decidiamo (sicuramente con un po’ di incoscienza) di camminare fino al punto in cui si è circondati da sale a 360 gradi. Ci vuole almeno 1 km e mezzo abbondante sotto al sole con una temperatura superiore ai 52 gradi. Una sfida di sopravvivenza. Se non ve la sentite, specie in estate, non fatelo. Può essere molto pericoloso. Neanche a dirlo, l’acqua deve essere sempre con voi e se avete problemi respiratori, cardiaci o di alcun genere non pensate neanche lontanamente di iniziare a camminare, soprattutto in estate. Anche giovani sportivi possono andare in difficoltà in condizioni tanto estreme.

Arrivati al punto in cui c’è solo sale ovunque si guardi, vedo le montagne in lontananza, offuscate dall’aria colma di calore. Con più visibilità e in un’altra stagione sono sicuro che questo posto sia una meraviglia naturale con pochi eguali. Osservo anche le formazioni pentagonali generate dal sale sulla superficie. Una perfezione geometrica che solo eventi naturali possono concepire. Dopo un estenuante ritorno, accompagnato nella mia testa dalla canzone dei Pink Floyd del finale di Zabriskie Point che sa tanto di desolazione infinita mi guardo più volte indietro, ammaliato da un posto tanto estremo e inospitale.

Percorrendo al contrario la strada che ci ha portato al bacino, deviamo verso Artist’s Palette. Una fiancata di montagna dove il sale e gli agenti atmosferici hanno dato vita a rocce con diversa colorazione l’una accanto all’altra. Sicuramente con una luce più viva come quella del tramonto, i colori vengono esaltati maggiormente. Ma anche nel primo pomeriggio si distinguono chiaramente i colori giallo, verde acqua e rosso. Artist’s Palette tra le altre cose, si raggiunge attraverso una deviazione che si incunea in un piccolo canyon. Una strada estremamente affascinante, con i suoi colori dorati che fiancheggiano il tragitto.

Adesso è ora di rifornirci per il lungo pomeriggio che ci attende. A Furnace Creek compriamo i viveri necessari nell’unico supermarket della zona. Ovviamente non c’è anima viva per strada. Si tratta di un vero e proprio villaggio, più che una cittadina. Qui è stata segnalata la temperatura più alta nella storia d’America: 57,8 gradi Celsius. Nuovamente in macchina, dove non resistiamo alla tentazione di scattare una foto al termometro, cerco di consolare Vittoria dicendole che in serata dormiremo in un luogo dove ci saranno circa 15 gradi. Lei non sa se ridere o piangere.

I nostri consigli su dove dormire alla Monument Valley

Sulla strada che conduce all’altra uscita/entrata del parco a Ovest, il nostro ultimo stop porta le nostre menti a uno scenario più familiare se si pensa al deserto. Le Mesquite Flat Sand Dunes sono appunto dune di sabbia non troppo alte, che fanno venire in mente deserti di altri luoghi. Ma dopotutto, il parco è parte dell’immenso deserto del Mojave. Il sole sta cominciando lentamente a calare e le dune cominciano ad apparire in penombra. Uscendo dal parco noto come compaiano degli alberi di Joshua, alberi dalla forma unica che sicuramente rivedremo più avanti. Proseguendo saliamo su un passo di montagna, osserviamo le montagne che cambiano forma ai nostri lati, e vediamo il Panamint Springs Basin, nei pressi dell’omonima cittadina. Altra sterminata distesa di sale incastrata tra le montagne.

Di lì in avanti, non ci fermiamo fino ad aver imboccato la CA 395, che seguiremo per le successive 4 ore circa. Originariamente avremmo voluto arrivare a Lake Tahoe lo stesso giorno, tuttavia i tempi di percorrenza ci sono sembrati troppo sfiancanti e abbiamo optato di dormire a due ore dal lago, a Bridgeport. Strada magnifica la 395; alla nostra sinistra vediamo la catena montuosa della Sierra Nevada, con alcune vette incredibilmente ancora innevate. Non dovrebbe sorprendere in realtà, pensando che il Monte Whitney, vetta più alta degli Stati Uniti dista neanche 130 km dal Death Valley.

Seguiamo la strada, col paesaggio che cambia, il tramonto che lascia passare i raggi tra le vette alla nostra sinistra, sfumando davanti a noi in un arancione intenso. Arriviamo a Lee Vining, alle porte di Mono Lake quando è già buio, dopo aver visto indicazioni per il Passo Tioga, accesso tra le montagne per lo Yosemite National Park. Ci fermiamo a mangiare (in maniera sostanziosa e anche discretamente saporita) da Nicely’s. Terminata la cena, in 20 minuti arriviamo a Bridgeport, dove dormiamo al Virginia Creek Settlement, una sorta di camping dove si può dormire in cabin su ruote mobili. Particolare e accogliente. La temperatura è di 17 gradi Celsius. In poche ore abbiamo “vissuto” uno sbalzo termico di 35 gradi. Stravolti, crolliamo.

Alloggi disponibili a Bridgeport

Giorno 9: itinerario lungo il Lake Tahoe

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Ore di viaggio: 3

Dopo una colazione fatta al nostro alloggio (non inclusa), ci rimangono circa due ore per raggiungere King’s Beach, minuscola cittadina sulle rive nord di Lake Tahoe, il lago al confine tra California e Nevada. Lavori in carreggiata e traffico presso Gardnerville ci rallentano notevolmente. Arriviamo per le 13 circa al nostro minuscolo ma splendido e accogliente cabin privato prenotato su Airbnb.

La location è straordinaria, tra altissimi pini, a letteralmente 50 metri da una spiaggia di sabbia. L’unica pecca è che gli incendi della California hanno trasportato una cappa di fumo intorno all’area, come già preventivato e osservato avvicinandosi al lago. Ciò non ci toglie entusiasmo e dopo aver tastato l’acqua (freddina senza sole) noleggiamo una moto d’acqua per mezzora e ci divertiamo non poco. Mangiamo uno yoghurt in un supermarket di fronte la spiaggia, e torniamo al cabin.

Ci diamo una sistemata e ci dirigiamo a South Lake Tahoe, dove la sera assistiamo al concerto di Florence + The Machine alla Harvey’s Outdoor Arena. South Lake Tahoe è in Nevada, ci sono almeno tre casinò grazie alla legislazione sul gioco d’azzardo ed è tutto fatto in grande. Lake Tahoe è un posto di nicchia per i turisti stranieri, ma un must per californiani della parte nord e residenti del Nevada. Di conseguenza è un posto ricco e costoso. Abbiamo visto case maestose sul lago, enorme benessere in tutte le cittadine, che in bella stagione diventano zona di villeggiatura.

D’inverno, vista l’altitudine, a oltre 1800 metri, nevica spesso e in abbondanza, tanto da poter sciare sui pendii che circondano il lago. South Lake Tahoe è l’epicentro della vita sul lago, specie in estate. Concerti di artisti affermati e minori si susseguono, i casinò non si fermano mai, cucine internazionali in gran numero nonostante sia un posto abbastanza remoto. Non manca nulla.

Le spiagge del sud sono molto movimentate, chi possiede una casa spesso preferisce la serenità della riva Ovest o del Nord, dove sorgono le cittadine più carine e tranquille e dove vengono costruite le case più belle. Dopo il concerto ceniamo nell’unico posto che ancora abbia la cucina operativa a tarda ora: California Burger co. Pieno di ragazzi e con musica dal vivo serve ottimi panini.

Giorno 10: Lake Tahoe

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Ore di viaggio: 1:40

Finalmente il cielo è azzurro, la giornata è splendida, la visibilità ideale. Facciamo colazione all’eccellente Log Cabin Coffe and Ice Cream a King’s Beach e ci dirigiamo verso ovest. Dopo aver appena assaggiato il lago il giorno precedente, vista la giornata, vogliamo godercelo appieno. Ci fermiamo allo Sugar Pine Point State Park, 10 dollari l’entrata, valida per tutto il giorno negli altri state park in California.

Il classico molo sul lago regala una vista magnifica. Siamo circondati da prati verdi, scoiattoli e pini. L’acqua è smeraldo come suggerisce il soprannome del lago “Emerald Lake”. Il fondale è sabbioso con grandi sassi in prossimità delle rive, sotto la superficie c’è tanta vita e tanta fauna marina. Noleggiamo una canoa a due posti con cui andare a esplorare una piccola baia vicina, riusciamo a fare persino dei tuffi da alcune rocce.

Abbiamo ancora voglia di esplorare e goderci l’acqua e ci dirigiamo al D L Bliss State Park, sempre a Ovest, ma più a Sud del precedente. Il vento è un poco più forte, ma l’acqua col sole è magnifica, limpidissima e non troppo fredda. La spiaggia del parco è stupenda, oltre che non troppo affollata. Inoltre le rocce alla destra della spiaggia sono alte e consentono di fare tuffi. Un vero paradiso. Soddisfatti, vogliamo vedere Emerald Bay, ma la confusione al parco in questione ci fa un po’ desistere e decidiamo di vedere solo dall’alto. Da lì si ammira l’unica isola all’interno del lago, Fannette island.

Non ancora del tutto sazi di bellezza, ci concediamo il tramonto a Sand Harbor Beach, forse la più bella delle spiagge del lago. Paghiamo 10 dollari poiché lo State Park è oltre lo state-line, quindi in Nevada. Nuoto al tramonto e mi tuffo dalle rocce mentre Vittoria si rilassa con l’ultimo sole della giornata disturbata da uccellini, scoiattoli e bambini. La sera ceniamo da Bite American Tapas, a Incline Village. Portate minuscole e prezzi altisonanti. Se avete tanta fame non fa per voi.

A fine giornata la soddisfazione è estrema, anche se col pensiero al giorno dopo, la tristezza mi assale. Gli incendi in California hanno costretto le autorità a chiudere lo Yosemite e quindi non ci sarà possibile andare. Non vale neanche salire per il passo Tioga fino al lago Tenaya per la cappa di fumo che rende tutto irrespirabile e con visibilità limitata.

Giorno 11: da Lake Tahoe a Sacramento lungo la Gold Country

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Ore di viaggio 2:40

Come deciso, niente Yosemite. Nel giorno precedente avevamo cercato di capire quale fosse la soluzione migliore per passare la giornata. Oltretutto c’era da capire come gestire il pernottamento previsto a Modesto, aldilà della Sierra e di Yosemite. Le opzioni erano i bagni di fango a Calistoga per poi raggiungere Mendocino, sulla Northern Coast californiana, opzione che risultava logisticamente impossibile, e la Gold Country, con le diverse cittadine che la compongono.

Optato per la seconda, imbocchiamo la superstrada che da Lake Tahoe ci porta leggermente più a nord. La prima cittadina che vediamo è Nevada City. Cittadina che indubbiamente mantiene le sue peculiarità da “corsa all’oro”. Sulla via principale gli edifici sono in legno e dalle forme più western che moderne, compreso il grande hotel principale che ricorda da fuori l’entrata di un saloon. A parte questo, non sembra esserci molto da vedere e optiamo per una seconda cittadina, a circa 40 km in direzione sud ovest: Auburn.

Quest’ultima invece sembra un po’ più estesa, graziosa e ben curata (sempre con oltre 35 gradi quel giorno). A parte ciò non offre granché e decidiamo di vedere lo state park al suo interno di cui diverse guide parlano bene. Lo state park consiste più che altro di sentieri battuti che si arrampicano per i piccoli canyon che il North Fork American River ha modellato nel tempo. Sotto a un ponte, notiamo diversa gente che si è piazzata. L’acqua sembra abbastanza pulita e lo scenario è carino al primo impatto. Decidiamo di scendere e con nostra grande sorpresa troviamo due “colonie” di messicani e afroamericani che hanno scelto l’area come zona per il loro sabato di svago con le famiglie.

Parlando coi messicani scopro che vengono tutti dalla vicina Sacramento. Per quanto normale il piccolo fiume sembri, girato un angolo ci sono delle belle rapide che desisto dal prendere perché l’acqua è troppo bassa. Dopo esserci rilassati andiamo a mangiare uno yogurt in città, ancora incerti sul da farsi per la notte. Decidiamo infine, dopo aver annullato per tempo la prenotazione di Modesto, di prendere una stanza a Sacramento e dedicare qualche ora a quella che in molti non sanno essere la capitale dello stato della California.

Arrivati in città, ci rendiamo conto della grande presenza di afroamericani, di cui moltissimi sono homeless. Inoltre la città sembra svuotata anche se è sabato. Il centro sembra curato e abbastanza elegante, con il municipio a prendersi la scena in fondo al viale principale. Tutta la gente che a stento vediamo per downtown la troviamo nei pressi del Tower Bridge (color oro e piacevole all’occhio), dove tra negozietti, ristorantini e battelli ancorati la scelta per passare del tempo non manca. Dopo aver visto da vicino uno stormo di anatre in riva al fiume mangiamo al Fat City Bar & Cafe, dove possiamo dire di essere soddisfatti. Terminiamo la giornata andando al cinema a vedere Mission Impossible: Fallout.

I nostri consigli su dove dormire a Sacramento

Giorno 12: arrivo a San Francisco

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Ore di viaggio 1:30

È domenica, e ce ne rendiamo conto dalla mezzora buona che perdiamo al casello del Bay Bridge. La Bay Area fa circa 8 milioni di abitanti, e di domenica, una buona parte decide di fare un salto a “The City”. Entriamo da un cavalcavia che ci regala un primo piano dello skyline del distretto finanziario, saliamo su per una collina e arriviamo quasi subito a Scott Street, dove abbiamo affittato una stanza (con vitale posto auto) per tre notti. Dopo aver lasciato bagagli e auto, siamo finalmente a spasso. La giornata è stupenda, ma a San Francisco se pensi di essere nella California da cartolina ti sbagli di grosso. Per prima cosa ci sono 20 gradi, freschi ma molto umidi. Cominciamo a scendere verso Nord e i pier.

Il primo stop è alla casa di Mrs Doubtifre, che Vittoria non vuole perdersi. Arriviamo così al famoso Pier 39, all’interno del Fisherman’s Wharf (ogni città portuale ne ha uno, composto da ristoranti e bancarelle per street food e negozi) anima pulsante di San Francisco, indubbiamente ormai una trappola per turisti. Da qui partono tante crociere che girano la baia, i venditori di granchi fanno a guerra per venderti un “clam chowder in a bread bowl” (zuppa cremosa di molluschi servita all’interno di una grossa pagnotta scavata) o un crab sandwich (polpa di granchio e salsa tartara) e soprattutto luogo di adozione di una colonia di leoni marini, rumorosi e vanitosi agli occhi dei turisti.

Vediamo Alcatraz in lontananza, così come all’estremità esterna della baia si scorge il Golden Gate Bridge. Tuttavia, proprio dal Golden Gate si notano le classiche nuvole che entrano dalla baia, e sembrano avvicinarsi verso la città. Decidiamo quindi di seguire la via del mare cercando di vedere il più possibile seguendo il litorale Nord. Ghirardelli Square sembra la piazzetta di un outlet nostrano, adornata a punto e con tanta vivacità. A questo punto decidiamo di deviare verso il Financial District e Chinatown, poiché le nuvole ormai stanno coprendo la costa.

Non prima però di aver visto Lombard Street. Un autentico must e simbolo di San Francisco. Una strada tutta a curve strette di brevissima lunghezza adornata con aiuole curatissime e fiori di campo. Naturalmente in notevole pendenza. Embarcadero è l’hub principale per il traffico navale della baia. Chi va a Berkeley, chi a Oakland o a Sausalito, chi verso la Marin County. Ha un bel centro commerciale che affaccia sulla baia con al suo interno il ferry terminal.

Per cena, a Chinatown optiamo per Capital Restaurant, dove le recensioni non si rivelano molto veritiere. Addirittura alcuni camerieri ci fanno intendere che in cucina c’è poca voglia di cucinare sconsigliandoci di prendere troppe cose. Sembrerà strano, ma anche nella città con la più alta comunità cinese in America, alcuni ristoranti cinesi sono esattamente come in Italia o altri luoghi. Dopo un’ora di camminata fino in collina, devastati, crolliamo.

I nostri consigli su dove dormire a San Francisco

Giorno 13: San Francisco

tour stati uniti ovestIl “mood” della giornata prende spunto dal tempo: nebbia e cielo grigio con circa 14 gradi, praticamente la temperatura più bassa incontrata fino questo punto. E il primo stop della giornata ci costringe a svegliarci presto per dirigerci coi mezzi al Pier 33, per la crociera organizzata ad Alcatraz. Prenotate con mesi di anticipo, sul momento non è concepibile per gli americani trovare un biglietto. Specie perché un’unica compagnia detiene il monopolio: la Alcatraz Cruises.

“The Rock”, come è chiamata l’isola, è ovviamente conosciuta per l’omonima prigione di massima sicurezza, ormai dismessa e ora museo. C’è la possibilità di fare un tour con audio guide, con un ranger o anche in autonomia. Nelle varie sezioni si osservano le sale comuni, le celle e tantissime informazioni sui grandi nomi che hanno occupato i letti della prigione. Speciale attenzione è prestata a quella che in realtà non è considerata un’evasione riuscita (anche l’unica tentata): quella dei gemelli Morris.

Tornati in città decidiamo di fare una sorta di brunch anziché pranzare più avanti in giornata. Ci fermiamo all’Hollywood Cafe, porzioni sostanziose e discrete. A quel punto prendiamo la famigerata Cable Car, che si arrampica e riscende per le colline. Scendiamo a California Street e dopo aver visto la polizia avere il suo bel da fare per sedare una presunta sparatoria in pieno centro, con un autobus ci dirigiamo al Golden Gate Park, dove con le biciclette esploriamo il parco, vediamo il recinto dei bisonti e ci affacciamo su Ocean Beach. Il tempo, purtroppo è quello che è, e riusciamo a godere dello scenario relativamente. Osserviamo stormi di pellicani sulle rocce accanto la spiaggia e ci dirigiamo a Baker Beach, passando tra vialetti circondati da case stupende che nel retro si affacciano sul Golden Gate Bridge.

La nebbia copre per metà il ponte ma almeno siamo soddisfatti della nuova prospettiva che abbiamo sul ponte. Oltre ai pellicani, i corvi sono sempre presenti e persino uno splendido falco pellegrino che vediamo planare vicino a noi. Consegniamo le bici e tornando decidiamo di fare un giro a Union Square, dove infine ceniamo con portate fin troppo generose, ma assolutamente buonissime, alla Cheesecake Factory all’ultimo piano di Macy’s. Concludiamo la giornata incontrando un ex compagno di squadra americano, bevendo un drink al Mario’s Bohemian Cigar Store Cafe (se vi piace bere questo posto non troppo affollato fa per voi).

Torniamo nuovamente alla nostra stanza a piedi. Dopo due giorni di San Francisco, però, rifletto sulla eccessiva disparità della città. Il boom economico della Silicon Valley ha mandato per strada un sacco di persone negli ultimi 15 anni, e questo aspetto francamente, agli occhi di un viaggiatore più attento fa un brutto effetto.

Giorno 14: visita al Point Reyes National SeaShore da San Francisco

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Ore di viaggio: 3

Il tempo, come da previsioni meteo è ancora cupo. La sveglia anche oggi è alla buon’ora e questa volta però, in macchina, ci dirigiamo a Nord. Siamo diretti a Point Reyes, una penisola a nord di San Francisco che affaccia sul Pacifico. Abbiamo appuntamento con una guida che ci accompagnerà a visitare la riserva faunistica. Passiamo finalmente sul Golden Gate Bridge, ancora nuvoloso, e vediamo dall’alto Sausalito prima di entrare nelle Marin Highlands.

La strada è piena di boschi ed è abbastanza piacevole, ci vuole circa un’ora di strada dal centro città. La nostra guida si chiama Frank, un naturalista specializzato in fauna americana. Vediamo subito dei coyote, un gufo, diversi uccelli tra cui quaglie californiane, falchi dalla coda rossa, pellicani bianchi e corvi. Cervi comuni e Wapiti, che sono in piena stagione riproduttiva, quindi con i maschi alpha che controllano i loro harem. Non vediamo purtroppo alcuna lince, animale sfuggente che però è comune da queste parti.

Intorno alle 16 siamo già di ritorno e facciamo un salto a Berkeley per vedere l’università. A quel punto la giornata è diventata splendida, il cielo azzurro, l’aria pulita. Allunghiamo parecchio il nostro percorso pur di passare finalmente per il Golden Gate e vederlo quasi libero dalle nuvole. Magnifico. Scendiamo all’estremità Nord Ovest di San Francisco, precisamente al Marina District per incontrare un altro ex compagno di squadra e la sua fidanzata con cui ceniamo al Tipsy Pig, carinissimo ristorantino alternativo con veranda esterna, e ci salutiamo prima di rivederci chissà quando. I nostri giorni a San Francisco si sono esauriti, un po’ insoddisfatti per il tempo soprattutto, guardiamo avanti, pensando al giorno dopo dove ci attende il Big Sur!

Giorno 15: da San Francisco al Big Sur fino a Cambria

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Ore di viaggio: 5:30

Partiamo anche oggi alla buon’ora, sempre con un cielo grigio. Il primo stop in realtà è dietro l’angolo, ad Alamo Square, dove si vedono le famose Painted Ladies. Case in stile vittoriano affiancate l’un l’altra ognuna di colore differente. Dall’altura all’interno della piazza si può scorgere lo skyline della città alle spalle delle case. A questo punto ci rimettiamo in moto, e dopo un pit stop per benzina e gomme finalmente siamo sulla Pacific Coast Highway o più comunemente Highway 1 o CA 1, che per essere precisi è una sezione della più lunga Route 101 che parte dall’Olympic National Park nello stato di Washington e giunge fino a Los Angeles. Il tratto in questione è lungo oltre 1000 km, quasi totalmente affacciato sull’Oceano Pacifico.

La cosa migliore è che come previsto dai miei amici americani, il tempo, a differenza di San Francisco, è eccellente. Passata Pescadero le nuvole spariscono e il sole letteralmente acceca gli occhi. Lo scenario inizia a diventare davvero piacevole: il vento, nonostante una volta spuntato il sole si sia optato per abbassare il tettuccio, è sopportabile, l’oceano alla nostra destra calmo. Siamo diretti a Monterey dove per le 13:00 abbiamo prenotato un’escursione di oltre tre ore per osservare le balene.

Prima però, facciamo una sosta a Moss Landing, dove vediamo le lontre di mare che a pancia in su divorano ricci all’interno del porto turistico. A far loro compagnia aironi, pellicani, leoni marini e foche di porto. Nel mentre osservo amanti della natura girare in kayak per il porto avvicinandosi moltissimo agli animali. Provo molta invidia nei loro confronti e mi riprometto di trovare un altro porto naturale lungo la costa dove poter fare lo stesso. Successivamente proviamo a fare un salto anche ad Elkhorn Slough, un’oasi faunistica dove si radunano stormi di uccelli di ogni tipo. Il tempo necessario non lo abbiamo e ci dirigiamo verso Monterey.

Di Monterey vediamo poco, se non le splendide spiagge e gli scenari collinari opposti all’oceano. La baia di Monterey è conosciuta in tutto il mondo per essere una delle zone più ricche di vita marina al mondo, e la città ha uno degli acquari più grandi e ricchi del Nord America e del mondo. Purtroppo, una visita all’acquario avrebbe richiesto diverso tempo, che abbiamo preferito dedicare all’escursione in mare. Per quanto visto poco della cittadina, il benessere è palpabile, e la qualità della vita sembra davvero alta. Aria fresca, acque fredde ma pulite, gente generalmente molto accogliente.

Se avete visto la serie tv Big Little Lies riconoscerete sicuramente i paesaggi costieri al di fuori della cittadina e naturalmente il Fisherman’S Wharf, dove mi concedo un’altra clam chowder prima di imbarcarci per l’escursione. Mentre ci dirigiamo in mare aperto, notiamo ancora persone in kayak che si avvicinano ai leoni marini che popolano le rocce che formano il porto. Una volta in mare aperto vediamo finalmente 2 gruppi di megattere, affiancate nella pesca alle aringhe dai leoni marini. Sulla via del ritorno vediamo una gigantesca medusa di cui ignoro la specie, e il Mola Mola Sunfish, conosciuto da noi come pesce luna. Affascinante e gigantesco. Restiamo allerta sperando di scovare una balenottera azzurra (il più grande animale al mondo) che è stata recentemente avvistata all’interno della baia e un po’ di delfini, ma niente.

I nostri consigli su dove dormire a Monterey

Un po’ delusi rientriamo in porto e continuiamo verso Sud. Dopo trenta km scarsi, sempre all’interno della contea di Monterey inizia quello che viene chiamato Big Sur: un tratto di costa frastagliata lungo circa 150 km, con foreste dal lato opposto. È famoso per la sua bellezza naturalista e faunistica, ed è davvero impossibile dissentire su questo. Il punto di “inizio” del Big Sur può essere considerato il Bixby Creek Bridge, subito dopo il simile Rocky Creek Bridge. Tornando al primo, lo avrete sicuramente visto in tante foto (e anche in Big Little Lies sin dai titoli di testa). Ha una forma unica, con una sorta di arco a supportare la struttura. Come forme ricorda le sopraelevate di New York e Chicago, solo che invece del metallo scuro e freddo, il colore è chiaro e il sole sembra quasi riscaldarlo e renderlo un tutt’uno col paesaggio. Inoltre, in basso una spiaggia di sabbia dorata e l’acqua verde della riva rendono lo scenario ancora più suggestivo.

Questo tratto di costa chiamato Big Sur scorre sulla CA 1 ad almeno 50 metri di altezza sull’oceano. Le panoramiche che a ogni curva si aprono lasciano senza fiato. Spiagge dorate, insenature, falchi e condor che volano sopra di noi, faraglioni che escono dall’oceano, uno spettacolo. E se volete il mio consiglio percorretela da Nord a Sud per avere l’oceano sempre alla vostra destra e fermarvi continuamente negli innumerevoli spazi dedicati. Proseguendo verso Sud, o rotolando verso Sud, come cantano i Negrita, giungiamo al Julia Pfeiffer State Park. Famoso per la sua cascata che raggiunge l’oceano e la sua spiaggia dorata. Ci mettiamo un po’ a trovare l’ingresso per il punto di osservazione, e quando lo troviamo, purtroppo, essendo già le 4 e mezza non ci è concesso raggiungere il punto di osservazione né la spiaggia per ragioni di sicurezza.

Un ranger mi dice che hanno tagliato l’accesso per le auto perché la strada che portava al parcheggio interno era presa d’assalto costantemente, tanto che essendo stretta e ripida più di qualcuno era morto investito. Inoltre sostiene che anche se diretti a piedi, la gente si era già sistemata per il tramonto e quindi raggiunto la massima capienza. Francamente nessuna guida ha accennato a tutto questo, quindi il tutto ci lascia un po’ perplessi, ma vediamo come tanti altri prima e dopo di noi vengano in effetti respinti. Ci rimane un po’ di amaro in bocca, ma almeno dopo aver pagato i 10 dollari per l’ingresso allo State Park ci godiamo il suo interno tra i pini del Big Sur.

Mentre il sole comincia a sfumare all’orizzonte sull’oceano Pacifico, noi scendiamo ancora, fermandoci spesso a fare foto e ammirare il paesaggio. A un tratto mi sembra di riconoscere il resort dove vengono girate le ultimissime scene di Mad Men. Passiamo per il Pitkin Curve Bridge, con una sezione che è un tunnel con vedute sull’oceano e continuiamo verso Ragged Point, dove mentre il sole si abbassa sempre di più, le vedute diventano ancora più belle. L’ultimo stop che ci concediamo, con la luce che sta ormai per sparire, è alle Salmon Creek Falls, che nascoste dalla vegetazione, si rivelano un po’ asciutte come mi aspettavo data la stagione.

Arriviamo col buio a Cambria, nella contea di San Simeon, dove alloggiamo al Castle Inn, su Moonstone Beach drive. Arrivando col buio non possiamo ammirare le pietre per cui la spiaggia è famosa. Inoltre la vista sarebbe straordinaria poiché la piccola spiaggia e l’oceano si trovano letteralmente a 10 metri dal parcheggio del nostro (ottimo e con piscina) motel. Esausti, andiamo a mangiare sotto consiglio del manager del motel al Moonstone Beach Bar & Grill a neanche 100 m di distanza. Caro (come un po’ ovunque) ma assolutamente soddisfacente e con portate generose.

Alloggi disponibili a Cambria

Giorno 16: da Morro Bay a Venice

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Ore di viaggio: 5

Ci svegliamo, e oggi la nebbia del Pacifico è presente, almeno a inizio giornata. Tanto che lo scenario che speravamo di vedere di fronte il motel ci lascia insoddisfatti. Dopo la colazione fatta al motel, ci dirigiamo poco più a nord alla spiaggia di Piedras Blancas, dove vediamo da pochi metri di distanza gli elefanti marini. Enormi, rumorosi e in questo periodo privi di testosterone e quindi abbastanza tranquilli. Riprendiamo la marcia verso sud decidendo di fermarci a Morro Bay, cittadina che conobbi grazie a un documentario sugli squali e, dopo aver fatto delle ricerche, ho capito essere un luogo ideale per vedere da vicino mammiferi marini in kayak. E il posto non delude le aspettative.

Noleggio un kayak per un’ora e mi avvicino fino a due metri circa alle lontre, che distratte dalle loro pulizie alla pelliccia neanche si rendono conto della mia presenza. I leoni marini invece meglio guardarli a distanza, specie quando sui moli i vari maschi alpha fanno sentire la voce. Qua e là alcune foche di porto, sempre molto timide, escono la testa per respirare e assicurarsi che non mi avvicini troppo a loro. Quando volete avvicinarvi molto agli animali, siate sempre cauti e rispettosi. Nessun movimento brusco o aggressivo. Potreste spaventarli o peggio farli reagire e farli diventare aggressivi. Se non ve la sentite di avvicinarvi troppo, nessuno vi costringe e ricordate sempre che siete loro ospiti in quell’ambiente.

Mentre io faccio prove generali per diventare naturalista, Vittoria compie una lunga passeggiata sulla spiaggia al di fuori della baia, alla sua sinistra sorge la Morro Rock, famosa formazione rocciosa distintiva della cittadina. Osserva gente a cavallo e fotografa diverse opere di strada, come panchine riciclate con vecchie poltrone.

I nostri consigli su dove dormire a Morro Bay

Dopo Morro Bay la Highway 1 (o anche Cabrillo Highway) segue un percorso interno che abbandona momentaneamente l’oceano alla sua destra. Il primo tratto passa per San Luis Obispo, cittadina famosa per il cibo e per l’arte.

Noi proseguiamo verso Pismo Beach, dove ritrovando l’oceano e il sole magnifico del giorno prima abbiamo il primo assaggio della Socal, o Southern California. La temperatura è un po’ più calda, l’acqua anche e cominciano a spuntare le prime palme tipiche del Sud. Dopo una lunga ma scorrevole fila riusciamo a pranzare allo Splash Cafe, ristorantino che fa anche da asporto. Per il terzo pasto di fila e per la quarta volta in viaggio mi concedo una squisita clam chowder. Vittoria opta per una frittura di calamari e gamberi. Ad ogni modo, tutto buonissimo. Accanto Pismo Beach proviamo a vedere le dune sabbiose di Oceano Beach, dove una life-guard ci sconsiglia di camminare perché a breve partirà una competizione con i quad.

Proseguiamo lungo la CA1 passando per l’altra sezione senza oceano, questa decisamente più lunga, che ci porta attraverso campi coltivati di ogni genere, dalle fragole ai cavolfiori. Questa sezione si ricongiunge all’oceano a Gaviota dove dopo mezzora di strada giungiamo a Santa Barbara. Sono circa le 4 e 30 del pomeriggio. A Santa Barbara decido che è ora di fare il bagno senza timori reverenziali. L’acqua non è così fredda, un po’ torbida e intravedo una foca vicino a me. Il molo di Santa Barbara è carino ma super affollato. La spiaggia invece finalmente sembra davvero una di quelle viste in TV. Circondata da palme alte e sottili, e con tanto verde alle spalle, gente sui pattini ecc…

I nostri consigli su dove dormire a Santa Barbara

Vittoria si gode la spiaggia passeggiando verso le montagne in lontananza. Dalla punta del molo si notano le stazioni petrolifere che da qui in avanti vedremo sparse a kilometri dalla costa. Le Channel Islands invece sono troppo distanti per essere intraviste. Intorno alle 6 ripartiamo alla volta di Malibù. Ci vuole circa un’oretta. Mentre scendiamo ho la sensazione che l’oceano maestoso visto fino ad adesso assomigli molto di più al mare temperato che conosco. Sarà per la temperatura, per il sole costante, anche per il colore dell’acqua magari. Avvicinandoci a Malibù, prossimi ormai alla contea di Los Angeles alla nostra sinistra spuntano le Santa Monica Mountains, rocciose e quasi a picco sul mare. Tanto che hanno reti che proteggono la strada che le affianca.

In prossimità di Malibù cominciamo a vedere surfisti ovunque. Chi con i pulmini, chi per i fatti propri ha lasciato l’auto sul ciglio della strada. Nei loro occhi vedi solo il richiamo irresistibile dell’acqua. Arrivati a Malibù (che ci dà il benvenuto con un cartello che recita: “Malibu, 21 Miles of scenic beauty”) siamo sorpresi in positivo. Ci aspettavamo molta più confusione e prezzi fuori controllo. In realtà i prezzi non sono così diversi da quanto visto finora e troviamo pure parcheggio senza fatica. Sembra essere una cittadina rilassata, con le mega ville di attori, registi e produttori hollywoodiani in collina e sulla spiaggia. Nessuno schiamazzo, tutti molto sobri e tranquilli. Forse adesso è chiaro perché molte star di Hollywood la preferiscono ai quartieri più sfarzosi del Nord della contea.

I nostri consigli su dove dormire a Malibù

Ormai è buio e ceniamo all’ottimo Reel Inn, sempre a Malibù. Un posto dall’aspetto spartano ma che cucina divinamente. Praticamente solo pesce, si ordina alla cassa antipasto, portata principale, contorno e bibita. Un microfono annuncia il tuo nome e porti al tavolo il tuo pasto. Il prezzo nella media, quantità ottime, consigliatissimo anche per l’ampia scelta. A questo punto mancano venti minuti a Venice, e continuiamo a seguire la 1, vedendo il molo di Santa Monica in lontananza. Oltre Santa Monica arriviamo a Venice, al nostro appartamento prenotato su Airbnb, dove non siamo gli unici ospiti. Una coppia di danesi, probabilmente nostri coetanei, ci accoglie e ci illustra le poche regole che la padrona di casa vuole si seguano. Siamo finalmente a LA, come tutti la chiamano qui.

I nostri consigli su dove dormire a Venice

Giorno 17: visita degli storici quartieri di Los Angeles

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Ore di viaggio: 2:30

Come primo giorno nella città degli angeli, decidiamo di puntare a Nord verso la patria del cinema mondiale. Facciamo colazione a Venice, al Deus Ex Machina – Emporium of Post Modern Activities, un cafe che dal nome e dall’aspetto vi farà capire di essere decisamente in una zona con uno stile di vita tutto suo. Dopo ci dirigiamo subito a Brentwood, quartiere residenziale di prima fascia, subito dopo si entra a Westwood, sede anche della University of California in Los Angeles o UCLA, università dove sarei potuto andare con una borsa di studio per la pallanuoto anni prima. Il campus ha uno stile molto più classico di quanto mi immaginassi.

Proseguiamo per Beverly Hills, dove di base, a parte Rodeo Drive, con le sue boutique esclusive e i suoi hotel non c’è molto da vedere. Ma parte dell’esperienza è provare a sentirsi una star del posto a girovagare tra le sue vie. Ai vari bistrot ai lati della strada con un po’ di attenzione riconoscerete manager e produttori cinematografici cenare o sorseggiare qualcosa. Le palme sottili e altissime di Beverly Hills affiancano tutti i viali, tra cui il famoso Sunset Boulevard, macchine di ogni cilindrata e valore si susseguono. È una gara a chi mostra di più. Dopo Beverly Hills è la volta di Bel Air. Che più di un quartiere è un vero e proprio gigantesco complesso. La cosa più curiosa è vedere come al suo interno (costruito su collina) non siano presente solo mega tenute di valore clamoroso, ma anche case più modeste (all’apparenza) di cui però sembra difficile fare una stima data la posizione.

Arrivati in cima alla collina, scendiamo e continuiamo per Nord. Prossima fermata Burbank, sede dei principali Universal Studios. Un po’ per i prezzi francamente irragionevoli, la tipologia di parco (divertimento più che a tema) optiamo per gli unici Studios che offrano un tour a cifra ragionevole e tema prettamente cinematografico. I Warner Bros Studios non hanno bisogno di presentazioni: sono un’istituzione da quasi 100 anni, hanno prodotto grandissimi film e hanno divisioni per la TV e per i videogiochi. All’interno si possono vedere i set dismessi (al momento), i teatri di posa dove vengono registrati vari show (Conan, The Ellen Degeneres Show) e un paio di exhibit con costumi di posa e oggetti di scena dai vari The Dark Knight Trilogy, Harry Potter, Justice League ecc…

A discrezione del visitatore è possibile anche visionare un breve documentario sugli effetti sonori e il loro montaggio, con esempi tratti dal film Gravity premiato con diversi Academy Awards nel reparto tecnico. Il tour è ovviamente guidato e tutto sommato avere con sé qualcuno che ti illumina sulle tempistiche di produzione e i vari making of delle scene non dispiace affatto. Terminato il tour, che siamo riusciti a fare prima di quanto sperato, finalmente ci dirigiamo a Hollywood. Cercate parcheggio nelle vie parallele o limitrofe all’Hollywood Boulevard. Qualcosa salterà fuori e state attenti ai cartelli relativi agli orari in cui è possibile parcheggiare.

L’incrocio tra il Boulevard e North Hinghand Avenue è l’epicentro turistico dell’intera megalopoli californiana. È qui che si trova la Hollywood Walk of Fame. I marciapiedi sono corredati di stelle con i nomi di attori, musicisti e altri professionisti dello spettacolo. È qui che vedi i minibus che offrono i tour guidati alle ville delle star in collina, è qui che sono presenti il TLC Chinese Theatre, dove le maggiori anteprime mondiali hanno luogo. Accanto a esso il Dolby Theatre, casa della cerimonia degli Academy Awards. Di fronte lo studio dove Jimmy Kimmel registra il suo show. È tutto condensato in poche centinaia di metri. Dal centro commerciale che affianca il Dolby si può vedere la famigerata scritta di Hollywood.

Il traffico e la circolazione sono abbastanza infernali. Finito il breve tour del Boulevard, proviamo a salire a Griffiths Park, dove tra la confusione per un concerto all’Hollywood Bowl sottostante e la confusione per trovare posto rinunciamo optando per il lookout di Mulholland Drive (sì, quello da cui prende il nome l’omonimo film di David Lynch). E neanche qui la fortuna ci assiste. Un po’ per la visibilità, che in estate deve essere sempre limitata, tra clima dell’entroterra (desertico e asciutto) e smog (12 milioni di abitanti e chissà quante automobili portano anche a questo) e il fatto che il lookout chiuda alle 18:30. Un peccato, poiché la vista sarebbe stata comunque suggestiva. Ci dirigiamo nuovamente a Hollywood, dove ci concediamo un hamburger all’Hard Rock Cafe. Torniamo esausti a Venice.

I nostri consigli su dove dormire a Los Angeles

Giorno 18: da Los Angeles a Santa Monica

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Colazione a Venice, all’Intelligentsia Coffebar su Abbot Kinney Boulevard. Oggi inizialmente si visita la Los Angeles che I turisti non vanno a vedere, o quella che alcuni vedono solo perché non si informano a sufficienza sulle dimensioni e le zone della città. Primo stop è lo Staples Center, casa di Lakers e Clippers, e altre franchigie della città. Belle le statue dei grandi giocatori in giallo della storia (Magic Johnson, Kareem Adbul Jabbar, Shaquille O’neal, Kobe Bryant ancora assente). Downtown Los Angeles è quanto di più diverso da buona parte delle zone costiere (e anche dalle Downtown classiche che si immaginano).

Ci sarebbe il Central Market, che quel giorno è chiuso. Union Station è un bell’edificio e nulla di più. Di fronte la City Hall, vista in innumerevoli film, c’è una festa della comunità messicana, fa molto caldo e ci rifocilliamo con qualche cocktail alla frutta che vendono alle bancarelle. A tratti sono indeciso se parlare in spagnolo dato che non vedo un caucasico da ore né sento parlare inglese. Tornando vediamo da fuori la casa-set di Streghe su desiderio di Vittoria. Tornando prendiamo l’ennesima autostrada che fa parte del reticolato interno della contea di LA. Enorme, dispersiva e con macchina quasi indispensabile dato che i trasporti pubblici non sono così efficienti.

Torniamo quindi al nostro appartamento a Venice per lasciare l’auto e prendere le bici che la nostra padrona di casa ci offre comprese con l’alloggio. E adesso finalmente siamo diretti a Venice Beach, un luogo mitico che nel mio immaginario ha sempre avuto uno posto speciale. Sarà per aver visto la serie TV Californication dove il protagonista ha un appartamento vicinissimo alla spiaggia. Sarà per la sua Boardwalk che ho visto in tante altre immagini e set improvvisato del video musicale di The Adventures of Rain Dance Maggie dei Red Hot Chili Peppers, fatto sta che finalmente siamo lì.

Ci basta percorrere in bici il Venice Boulevard per arrivare per direttissima sulla spiaggia. Che è larga e piatta come l’ho sempre immaginata, con le palme che la costeggiano a fianco del marciapiede. La Boardwalk è un kaleidoscópio di colori, eccentricità e suoni. Dal presunto curatore che risolve i malanni fisici fino al tatuatore che fa tutto alla luce del sole. Gli immancabili artisti di strada, i venditori di frutta fresca, artigianato e cannabis (in California è legale). Il lato che dà sul mare è totalmente appannaggio di bancarelle e artisti di varia natura.

Voltandosi a Nord si vede il Santa Monica Pier con la sua ruota e le omonime montagne sullo sfondo. Dall’altra parte invece, proseguendo per la via pedonale si incontra la famigerata Muscle Beach (anche se l’originale è a Santa Monica). Che altro non è che una palestra all’aperto dove sembra essere in atto una competizione per stabilire chi sia il più grosso e vistoso. Si susseguono campetti da basket e ti viene da pensare come tanti campioni NBA abbiano iniziato su un court come questi. Infine, la pista da skate con skaters di ogni età che si susseguono tra le acrobazie col sole alle spalle. Non ci sono surfisti qui, le onde non sono abbastanza alte, ma maledizione se si sente comunque di essere nella California del Sud! Il mare non sembra niente di eccezionale, ma neanche così terribile. Tanto che la gente è in acqua senza problemi nonostante il vento e l’umidità che con l’avvicinarsi della sera sicuramente aumentano.

Incredibile Los Angeles: sul mare e verso sera umidità altissima, tanto da aver bisogno a momenti di coprirsi anche in estate. A nord, nell’entroterra (che di base sarebbe deserto) caldo torrido e secco per tutto il giorno. Dopo aver goduto appieno dell’atmosfera riprendiamo le bici che avevamo lasciato legate a un palo (tra pattini, skate e bici si perde il conto) e ci dirigiamo a Santa Monica seguendo la pista ciclabile. Tutto questo mentre il sole tramonta e sembra toccare la cima delle Santa Monica Mountains. La cosa impressionante è la velocità con cui il sole sembra calare. Mai visto niente del genere. Arrivati al Pier fa effettivamente più freddo, lasciamo le bici legate sotto il pontile e saliamo dalla spiaggia stessa.

La confusione è notevole, ma il tramonto è stupendo e vale la pena goderselo. A parte le giostre, ricorda molto un centro commerciale, solo che è tutto all’aperto e più suggestivo. Successivamente ci rimettiamo in bici e torniamo a Venice per incontrare un nostro concittadino ex pallanotista che sta terminando il suo master a UCLA. Ceniamo con lui da Green Leaf, un ristorante bio o comunque dai toni salutari, dove puoi comporti l’insalata dei tuoi sogni o scegliere tra i menù.

Altra osservazione: dimenticate gli stereotipi degli americani grossi, sedentari e amanti del junk food. Come mi aspettavo, specie a Venice, e più in generale in Socal, la gente è ossessionata dalla forma e dal vivere salutare. Troverete supermercati biologici e ristoranti specifici, oltre a gente che per strada ti chiederà di unirsi a loro per provare qualche esercizio di yoga o qualche altra arte meditativa.

Giorno 19: da Los Angeles a Orange County

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Ore di viaggio: 4:30

Siamo sempre a Venice, ma di primo mattino non si direbbe: il cielo è grigio (come sempre finora). Ci mettiamo in moto per le 9, con l’intenzione di vedere tutta la costa della contea di Los Angeles, passando per tutte le cittadine col suffisso “Beach”. Da Venice iniziamo a scendere verso sud. Marina del Rey, Manhattan Beach, Hermosa Beach, Redondo Beach, che vediamo di passaggio senza fermarci. Arrivati a Long Beach, scendiamo tentati dal mare e dalla bella giornata che è venuta fuori. La realtà è che Long Beach funge da porto di Los Angeles, quindi, una volta vicini all’acqua ci ricrediamo, e considerando come l’intenzione sia quella di continuare verso sud desistiamo.

Superata la città portuale (non piccola come le altre che la precedono) si entra nella Orange County, quella che molti ma non il sottoscritto hanno imparato a conoscere tramite la serie TV O.C. Va detto che le spiagge sono decisamente più belle qui, e le cittadine appaiono più curate e con maggiore benessere. Passiamo oltre Huntington Beach dove il mare ci invoglia già, passiamo anche Newport Beach fino ad arrivare a Laguna Beach. Ecco, Laguna Beach, se si evita la spiaggia principale è davvero un paradiso. Abbiamo trovato una discesa su un tratto di spiaggia poco affollata a poche centinaia di metri da Main Beach, con accesso da Mountain Road.

I nostri consigli su dove dormire a Laguna Beach

Sembrano quasi delle calette e l’acqua è incredibilmente limpida con qualche alga di Kelp che si deposita sulla sabbia. L’acqua non è assolutamente troppo fredda e le onde che arrivano a riva (nonostante sia apparentemente calmo) possono dare un assaggio di quello che i surfisti affrontano ogni giorno. Prima di scendere in spiaggia mangiamo dei discreti fish tacos al Wahoo’s Fish Tacos, a pochi metri dalla spiaggia. A Laguna Beach passiamo due ore buone tra sole, sabbia e onde. Il consiglio quindi è di cercare una discesa senza troppa confusione, non ve ne pentirete! Laguna Beach è il punto più a sud dove siamo arrivati, poco più giù si raggiunge Dana Point, che in teoria segna il confine della contea di Orange.

Tornando verso Nord ci fermiamo a Newport, dove andiamo in spiaggia in compagnia. Marco, un ragazzo nostro concittadino (e anche lui ex pallanotista) vive da diversi anni a Newport. Qui le onde sono ancora migliori, c’è vento ma non fa freddo e la giornata è sempre stupenda. La spiaggia altrettanto. Marco mi insegna come surfare senza tavola, semplicemente lasciandosi trasportare dall’onda mettendo il corpo in una determinata posizione. Farà effetto sentirlo, ma funziona! Ed è pure estremamente divertente. Passano cosi altre due orette dove ci facciamo raccontare come è vivere da quelle parti e quanto sia diverso lo stile di vita da quello che siamo abituati a immaginare. Marco e Bibi (la sua compagna, anche lei catanese) ci confidano che tra le altre cose, “qui a sud” la gente non impazzisce per il lavoro, alle 5 di pomeriggio abbandonano tutto e vanno in spiaggia a surfare.

Difficilmente prima delle 10 del mattino le attività aprono e che lo stile di vita e il benessere della zona permettono di vivere tutto con maggiore rilassatezza, ricordando non poco la Sicilia. A questo punto salutiamo Marco e Bibi e torniamo verso Venice. Prendiamo le autostrade interne ma usciamo prima a Redondo Beach, dove Vittoria vuole vedere il Pier, e a Hermosa Beach, il cui Pier è una location di uno dei film preferiti di Vittoria: La La Land.

A Hermosa Beach c’è anche qualche festival musicale, con il palco montato sulla sconfinata spiaggia. Ormai è quasi buio, abbiamo fame e decidiamo di concederci una pizza alla americana: e niente di meglio esiste se non Pizza Hut. A Venice prendiamo due pizze da asporto e arrivati in appartamento le divoriamo come se non ci fosse un domani.

Giorno 20: visita a Santa Catalina Island

tour america ovest

Ore di viaggio: 1:30

Neanche a dirlo, tempo grigio. Siamo già a Long Beach alle 9, il traghetto per l’isola di Catalina ci attende e in 45 minuti circa siamo ad Avalon, il più grande dei due centri dell’isola al largo di Los Angeles. Catalina è una sorta di oasi naturale, ormai diventata carissima per la sua posizione e per il le tenute immobiliari che pochi possono permettersi. Naturalmente in estate c’è maggiore confusione. Facciamo colazione al primo posto che troviamo e ci dirigiamo alla sede della Catalina Island Conservancy, dove abbiamo prenotato un tour dell’isola con la Jeep.

La gita è carina, ti permette di vedere buona parte dell’isola, dall’aeroporto in cima alle colline, fino alle spiagge nascoste, i camping più remoti. Inoltre, e sembra incredibile dirlo, c’è una piccola mandria di bisonti americani che si aggira per l’isola. Sono stati introdotti qui anni fa, anche se una buona parte è stata riportata nelle praterie del Nord Dakota. Riusciamo a vederne un paio, di cui uno da molto vicino. Un autentico simbolo americano, oltre che maestoso ed elegante, incute un certo timore. Niente che non sapessi già quando la guida dice che se troppo vicini possono innervosirsi e caricare.

Sulla via del ritorno vediamo anche degli asinelli selvatici, che invece non eravamo riusciti a vedere nella Death Valley. Infine, un centro dove sono mantenute e nutrite due aquile, una di mare testa bianca e una dorata (non ha una traduzione esatta in italiano), portate qui dopo essere state salvate e non più in grado di volare. Tornati ad Avalon, mi immergo finalmente in acqua alla ricerca del pesce Garibaldi, un pesciolino totalmente arancione sgargiante che da queste parti è il pesce della California per eccellenza. La fauna marina è notevole nonostante si avvistino pochi mammiferi marini.

A questo punto, dopo aver passeggiato anche per la cittadina che ricorda un ambientazione coloniale riprendiamo il traghetto. Tornati a Long Beach decidiamo di mangiare in un ristorante che mantiene ancora il suo aspetto da “diner”: il Long Beach Cafe, che con porzioni generose e qualità discreta ci riempie a dovere (specie dopo non aver pranzato come spesso ci è capitato). Torniamo a Venice non totalmente soddisfatti: a parte i bisonti e le aquile, i costi di tutto sono un po’ troppo alti, dal traghetto fino alle escursioni. Se non siete troppo amanti di certi aspetti, potete serenamente evitare Catalina e dedicare la giornata a qualche altro luogo. Da Los Angeles a San Diego c’è comunque molto da vedere.

Giorno 21: da Los Angeles a San Diego

La Jolla Cove

Ore di viaggio: 3

Dopo 4 giorni a Los Angeles, è tempo di muoversi. E di scendere ancora verso Sud. Dopo aver fatto colazione in uno dei tanti coffe shop di Venice e dopo aver riempito il serbatoio a dovere, imbocchiamo la I-405 che diventa poi la 5. In poco più di due ore arriviamo a La Jolla (il gioello), probabilmente la cittadina più esclusiva e benestante di tutta la contea di San Diego. E francamente non è difficile credere sia così. Oceano azzurro, case in collina, palme ovunque, giardini e parchi curatissimi.

Ci fermiamo prima a la Jolla Cove, accanto Ellen Browning Scripps Park. Nella spiaggia che si ammira affacciandosi dalla pista ciclabile del parco c’è uno spettacolo della natura totalmente gratuito. Una colonia di leoni marini (o otarie della California) di almeno 100 esemplari ha preso possesso della striscia di sabbia. Sono rumorosi, giocosi e sembrano apprezzare le attenzioni che i passanti e i turisti gli riservano. Alcuni, che dormono a riva sotto il sole, si lasciano persino accarezzare. Il consiglio che vi posso dare è di evitare: anche se i leoni marini sono generalmente innocui e socievoli, non si sa mai come possano realmente reagire. Ciò che è evidente però è che si lascino avvicinare notevolmente.

Riesco a scattare dei primissimi piani a neanche 2 metri di distanza, ed alcuni sembrano pure mettersi in posa. Inoltre, i cuccioli sono numerosi e le piscinette che si vengono a formare tra le rocce vicino la spiaggia fungono da perfetta nursery per i loro primi mesi all’insegna del gioco. All’altra estremità del piccolo parco sorge quella che viene definita Children’s pool, una spiaggia riparata da un molo in pietra che protegge dalla corrente. Qui i leoni marini non ci sono, ma tra alghe, Kelp e pesci coloratissimi (anche qui il pesce Garibaldi) si può intravedere qualche foca di porto. Infatti, alle spalle della spiaggia ne sorge un’altra dove le rocce sono che sorgono sono quelle dove spesso le foche si mettono a godersi il sole.

Riesco ad avvicinarmi a circa 10 metri, ma le foche sono abbastanza schive e si spaventano facilmente. L’unica che scende in acqua non appena mi vede si allontana precipitosamente. Nonostante fossi a distanza di sicurezza, non cercate di avvicinarvi oltre. Le foche di porto non amano l’interazione con l’uomo e si spaventano facilmente. Renderle nervose può stressarle e in casi estremi spingerle ad allontanarsi abbandonando persino i cuccioli. A chiudere, sono presenti i pellicani marroni, che finalmente vediamo da molto molto vicino. Più li guardo, più mi ricordano dei dinosauri (gli pteranodonti), di cui potrebbero serenamente essere discendenti. Immancabili gabbiani e corvi. La Spiaggia di Children’s pool è graziosa e riparata, l’acqua è abbastanza limpida, ma le tante alghe possono far desistere la gente a nuotare oltre i dieci metri dalla riva.

Nuotare sopra le alghe sicuramente può mettere soggezione, ma potete stare sereni. Non usciranno mai predatori mortali tipo squali, anzi, vi godrete un sacco di pesci colorati. Soddisfatti delle due orette passate vicino alle rocce, ci dirigiamo a La Jolla Shores, la grande spiaggia di sabbia 3 km più a Nord prima della baia dove sorge La Jolla Cove. È difficile dire che si tratti dell’Oceano Pacifico. L’acqua è limpida come raramente visto prima, molto più simile a un mare tropicale. La spiaggia è affollata ma non da non godersela. Maschera o occhialini sono d’obbligo, perché nonostante il fondale sabbioso la vita marina è presente.

La Jolla Shores è famosa per gli squali leopardo, piccoli pesci con macchie che ricordano i felini da cui prendono il nome. Si muovono nelle acque basse dei fondali sabbiosi e sono totalmente innocui per l’uomo. Purtroppo non sono fortunato abbastanza da notarli, ma al loro posto intravedo un altro famoso abitante di quelle zone: il pesce chitarra. Più avanti vedo una aragosta (!) e una piccola razza di mare. Con un occhio attento si può vedere molto. Il mare, come detto, ricorda più un mare tropicale. Si tocca fino a oltre 100 metri dalla riva e le onde sono basse e piacevoli, è un posto anche per famiglie. Come ci si aspetta, anche questa spiaggia è circondata da piste ciclabili e palme.

Prima di lasciare la spiaggia mangiamo uno yogurt comprato lì accanto e infine ci dirigiamo al nostro hotel: un Days Inn leggermente fuori dal centro città, dove il servizio è pessimo. Sistematici, andiamo verso Ocean Beach, dove però essendo quasi buio desistiamo dal passeggiare lungo il waterfront. Decidiamo quindi di dirigerci verso downtown, così da vedere San Diego un po’ meglio. La città sembra ben curata anche se non pare offrire moltissimo. Tutte le guide e i consigli convergono sul Gaslamp, il quartiere più movimentato e frizzante di downtown. Si tratta di un’unica strada cosparsa di ristoranti di ogni tipo, un’illuminazione ricercata e diversi neon che tendono ad attirare l’occhio.

Ci fermiamo a mangiare al Barleymash, uno sportsbar come se ne vedono tanti, coi numerosi schermi e parecchio rumoroso, dove però mangiamo più che bene. Io prendo uno dei barleymacs (con anatra), macaroni con diversi condimenti, alcuni davvero particolari e saporiti. Vittoria opta per una delle Iron fries, diverse confetture di carni sopra una montagna di patatine. Molto invitanti anche i flatbreads che ricordano le nostre pinse. Finiamo col provare della cioccolata alla gelateria Ghirardelli. Avendo cenato abbastanza presto, abbiamo il tempo di andare a vedere Mamma Mia: Here we go Again in un cinema vicino l’hotel.

I nostri consigli su dove dormire a San Diego

Giorno 22: visita di San Diego

Eventi San Diego

San Diego è considerata la città migliore d’America per diversi aspetti: pulizia, benessere, clima. Insomma, qualità della vita alta. È anche la sede della marina navale statunitense. Non offre tantissimo ma ha sole per più di 300 giorni l’anno, non fa mai freddo e neanche caldissimo. Questo ti permette di poter fare cose diverse nell’arco di una giornata anche in stagioni diverse. Ad esempio, nel nostro secondo giorno decidiamo di visitare la Old Town, che si rivela essere più una raccolta di bancarelle e ristoranti soprattutto ispanici. La particolarità è che ricorda molto una città western, sabbiosa e con edifici in legno.

Vale la pena dare un’occhiata all’artigianato messicano soprattutto, ma in fin dei conti non è niente di particolare. Da quanto accennato sopra, San Diego ha una forte contaminazione ispanica, specie messicana, come tutta la California. San Diego però, a differenza della stragrande maggioranza delle altre città californiane è una città di confine col Messico. A questo proposito pensiamo di andare a vedere l’International Friendship Park, al confine con Tijuana. Le recensioni ci fanno intuire come non valga la pena più di tanto, dato che il parco non permette di “affacciarsi” dall’altra parte.

Facciamo una breve passeggiata nuovamente a downtown, tanto per notare la differenza di traffico e viabilità rispetto a San Francisco o Los Angeles. Dopo un pranzo leggero ci dirigiamo a Coronado, un’isola considerata una cittadina-resort collegata da un ponte alla città. Dal ponte si può ammirare una vista notevole sullo skyline di San Diego da un lato, sulla base navale militare dall’altro. Essendo un’isola che si sviluppa in lunghezza, la spiaggia è infinita. Mi aspetto un mare limpido come quello del giorno precedente ma rimango deluso. Ogni onda alza molta sabbia (ben più scura di quella di La Jolla) rendendo l’acqua torbida.

A Coronado sorge l’Hotel del Coronado, struttura iconica nota soprattutto per essere una delle location di A qualcuno piace caldo con Marilyn Monroe, Tony Curtis e Jack Lemmon. L’hotel è ovviamente affacciato sulla spiaggia, che comunque riserva le sue sorprese con un tratto dove ai cani è concesso muoversi senza guinzagli per divertirsi con l’acqua. Torniamo in hotel per darci una sistemata e uscire verso Embarcadero.

A Embarcadero, che potremmo definire il porto turistico di San Diego sorge una splendida “marina” appunto, con un waterfront da cui ammirare splendide viste della baia e un parco. Dopo aver passeggiato lungo il waterfront siamo diretti proprio al parco. Dove assistiamo alla proiezione all’aperto di Star Wars: A New Hope con le musiche suonate dal vivo dalla San Diego Symphony Orchestra. Dal film allo scenario, una serata perfetta. Rientrando a piedi verso la città passiamo dal San Diego Convention Center, sede del San Diego Comic Con ogni luglio. Ceniamo al Meze Greek Fusion vicino il Gaslamp District, discreto ma caro.

Giorno 23: da San Diego al Joshua Tree National Park

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Ore di viaggio: 5:30

È ora di lasciare San Diego, le sue spiagge dorate e il Pacifico. Siamo diretti verso l’ultimo grande parco del nostro tour: il Joshua Tree National Park. Come deciso in precedenza, preferiamo allungare il tragitto di circa mezzora pur di fare una strada più interna e desertica, rispetto alla strada consigliata che ci avrebbe ricondotto a Los Angeles. Così facendo, usciamo prima dalla contea di San Diego per entrare all’interno del deserto di Anza Borrego. Dove tra bassi passi di montagna e distese di nulla intervallate da deviazioni in mezzo alle rocce, ci avviciniamo al Salton Sea. Il grande lago salato californiano, non paragonabile al Grande Lago Salato di Salt Lake City. Ci sono 40 gradi celsius, ma l’acqua ha uno splendido colore. Non abbiamo tempo però di fermarci, e ci godiamo le viste dall’auto.

Dopo una sosta per benzina e per mangiare qualcosa, ci addentriamo nel parco dall’ingresso sud. Prima sosta al Cottonwood Visitor Center per ottenere informazioni su strade, fauna e cielo notturno. I ranger ci comunicano, purtroppo, che la notte è prevista luna piena, praticamente azzerando le nostre speranze di vedere le stelle come avevamo fatto vicino il Bryce Canyon. Senza scoraggiarci troppo, ci mettiamo in moto. Joshua Tree è famoso per gli alberi da cui prende il nome, che però sono solo uno dei vari tipi di arbusto e piante che si trovano all’interno.

Da questo punto di vista, per quanto riguarda la flora desertica, il Joshua Tree è davvero un posto unico. I primi stop sono alla distesa di Ocotillo, una pianta semi-spinosa che produce fiori rossi in primavera. In piena estate è spoglia e verde, il suo colore naturale. Sembra un cespuglio di erbacce più robusto e decisamente più grande. Possono essere alti anche oltre 3 metri. Successivamente ci fermiamo al Cholla Cactus Garden, una distesa di piccoli cactus con spine gialle. Sono effettivamente difficili da decifrare e non si vedono tutti i giorni. Sono diffusi in questo tratto di California e nel deserto di Sonora in Messico.

Continuiamo sulla strada principale all’interno del parco, incontrando formazioni rocciose che ricordano un po’ quelle dell’Arches National Park. Qui, questa sezione viene chiamata Jumbo Rocks. Facciamo una piccola camminata al suo interno, dove intravediamo un coyote e una lucertola del deserto sotto una roccia. Nessuna tarantola o serpente. Successivamente osserviamo Split Stone, una roccia letteralmente tagliata in due, e la più famosa Skull Rock. Come si evince dal nome, la sua forma ricorda chiaramente quella di un teschio.

La sezione successiva invece è la Hidden Valley, che si raggiunge deviando verso ovest dalla strada principale. Qui le principali attrazioni sono Keys View e Barker Dam. La prima è un maestoso punto di osservazione da cui si può vedere parte della gigantesca faglia di San Andrea, Palm Springs, la città dove i californiani vanno a svernare e le Bernardino Mountains. La seconda invece, è una piccola diga artificiale costruita agli inizi del 1900 per permettere al parco di attingere all’acqua anche in periodi di estrema siccità. Oggi sembra più uno stagno, ma l’acqua è comunque presente anche in piena estate e con le piogge il suo bacino si riempie considerevolmente.

Tra le due si passa all’interno di immense distese di alberi di Joshua (prendono il nome dalla loro forma, che ricorda Giuseppe che prega con le braccia al cielo). Saranno solo alberi, ma hanno davvero un fascino tutto loro. Ci dirigiamo verso l’uscita del parco a Nord mentre il sole comincia a calare. A un certo punto però, vediamo una macchina accostata a destra e i suoi passeggeri che osservano qualcosa sul ciglio. Vittoria si accorge che si tratta di una tartaruga del deserto. Ci fermiamo a osservarla e la togliamo dal ciglio della strada, dove avrebbe rischiato di fare una brutta fine. Ormai felici e soddisfatti anche di quell’ultimo incontro, usciamo verso la cittadina omonima del parco e raggiungiamo Twentynine Palms, a circa 10 km di distanza.

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Ci diamo una sistemata e decidiamo di mangiare presto per poi provare a vedere il cielo nonostante la luna piena. Finalmente ci convinciamo a concederci una bistecca come quelle che abbiamo sognato per tutto il viaggio. E troviamo il posto giusto: spartano e pittoresco come in un western. The Rib Co. è gestito da due signore del posto, cucinano bistecche sia su griglia che su piastra e offrono della carne davvero superba. Prendiamo due New York Steaks da oltre 300 grammi l’una, più un antipasto e una gigantesca insalata di contorno. Paghiamo compreso di servizio e tasse 72 dollari. Un prezzo più che vantaggioso per la quantità e la qualità.

Appagati dalla cena e finalmente contenti di esserci tolti questo sfizio torniamo in hotel a prendere l’attrezzatura per le foto e ci dirigiamo al primo campground fuori la città: Indian Cove. La luna è effettivamente piena ma riesco comunque a scattare qualche bella foto con le rocce. Va detto che nessuno è presente, quindi ogni rumore nel buio quasi assoluto fa rabbrividire. Oltre al pericolo dei serpenti naturalmente. È un’esperienza da provare, ma i brividi lungo la schiena non mancheranno. Torniamo a dormire al nostro motel. Il giorno dopo si torna a Los Angeles.

Giorno 24: da Barstow a Los Angeles e ritorno a Venice Beach

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Ore di viaggio: 5:30

La sveglia è abbastanza presto, alle 7:30 circa. Oggi non c’è molto da guidare ma le cose da vedere non mancheranno. Facciamo una colazione rapida e ci mettiamo in macchina verso il deserto del Mojave. Per goderne appieno, decidiamo di allungare verso Est e poi tagliare verso nord per imboccare la I-40 verso Barstow. Questo tratto di Interstate ci mostra forse il più autentico deserto di tutto il Sud Ovest degli Stati Uniti.

Ovunque siamo stati prima, o il colore era diverso, o le rocce la facevano da padrone. Qui no, qui è solo sabbia ed erbacce. Inoltre, questo tratto di deserto è anche la location in cui è stato girato un video musicale iconico degli anni 90’. My Favourite Game della band svedese The Cardigans. Un video che per me ha sempre rappresentato un ideale di libertà estrema in uno scenario difficilmente replicabile. Il primo stop vero e proprio lo facciamo al cratere vulcanico di Amboy, vecchio di quasi 80000 anni.

Passiamo per Barstow, per capire se valga la pena dare un’occhiata. Non ci sembra granché e proseguiamo verso Los Angeles attraverso la contea di San Bernardino. Man mano che ci avviciniamo, lo scenario urbano comincia a delinearsi, il traffico aumenta, le strade si fanno più dissestate. Rientriamo nella contea di Los Angeles da Pasadena, dove iniziamo il tour delle location di La La Land e di altri punti d’interesse. Prima un ponte sospeso a Pasadena, effettivamente carino, poi il Rose Bowl, stadio della finale di USA 94’ tra Brasile e Italia oltre che casa degli UCLA Bruins per le partite di football.

Passiamo per i quartieri residenziali di Pasadena rendendoci conto di come sembri parecchio distante dalla Los Angeles che abbiamo visto. Scendiamo verso Hollywood, dove pranziamo in maniera veloce con tacos giganti. Sempre lì vediamo il cinema Rialto (location di La La Land), i murales di Hollywood, anche questi nel film e Melrose Avenue, altra storica arteria della parte nord di LA. Da fuori si possono vedere anche i Paramount Studios. Abbiamo ormai esaurito le location da vedere e ci dirigiamo a Venice, dove abbiamo prenotato una camera con vista mare per l’ultima notte.

Lasciate le valigie in stanza, riconsegniamo l’auto e torniamo a piedi verso la Boardwalk. Porto con me un telo, desideroso di fare l’ultimo tuffo, compro gli ultimi regalini da una ragazza di Washington che mi racconta la sua storia e di come ami vivere a Venice, e mi lancio in acqua mentre il sole tramonta dietro le Santa Monica Mountains. Tornati in camera, ci sistemiamo e andiamo a mangiare a Santa Monica, al Jimmy’s Famous American Tavern (buono e in linea coi prezzi). Ci concediamo una benedetta fetta di torta alla Cheesecake Factory, che mangiamo mentre passeggiamo per Santa Monica, vedendola così per la prima volta.

Per finire passiamo dal Pier, per osservare la sua insegna luminosa e scattare qualche fotografia. Il Pier di Santa Monica è anche il punto in cui termina la Route 66. Torniamo a piedi, tentando invano di far funzionare i monopattini collegati ad un app che la gente lascia per strada. Chiudiamo il nostro soggiorno californiano vedendo la famosa scritta luminosa alle porte della spiaggia di Venice.

Giorno 25: Ritorno in Italia

Venice è la cittadina più vicina all’aeroporto internazionale. In 15 minuti siamo al terminal e salutiamo Los Angeles, la California e gli Stati Uniti con un misto tra soddisfazione e tristezza. Difficile dire se torneremo presto, facile presumere che torneremo un giorno. Non so quando, ma torneremo.


Un Consiglio Importante:
Ricordati l’assicurazione sanitaria, non farla potrebbe rovinarti la vacanza in USA! Se non sai come orientarti nella scelta puoi leggere la nostra guida: Assicurazione USA: come scegliere la polizza migliore?

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Ivan Castagna

Viaggiatore per vocazione, amante di natura e fauna, sportivo da sempre.

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